Il testo qui presentato è stato tratto da: Quaderni di studio THEOSOPHIA - Stampato in Torino, nel mese di Ottobre 1976 Abbiamo estratto dalla lunga prefazione, ciò che si riferisce al contenuto filosofico del testo. |
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Versione e commento di
WILLIAM QUAN JUDGE
Alla prima Edizione Inglese
Per comprendere il sistema esposto in quest’opera è pure necessario ammettere l’esistenza dell’anima ed in confronto la non importanza del corpo fisico che essa abita. Poiché Patanjali sostiene che la Natura esiste solo per l’interesse dell’anima, nell’esistenza della quale è scontato che lo studente creda. Quindi egli non si prende la pena di provare ciò che ai suoi tempi era ammesso da tutti. E siccome egli afferma che il reale sperimentatore e conoscitore è l’anima e non la mente, ne consegue che quest’ultima, definita un "organo interno" o "principio pensante", benché più elevata e sottile del corpo, non è altro che uno strumento adoperato dall’anima per acquisire delle esperienze, nella stessa maniera in cui un astronomo adopera il suo telescopio per ottenere delle informazioni sui cieli. Ma la mente è un fattore importantissimo nel conseguimento della concentrazione; questa, d’altra parte, non può essere ottenuta senza la mente, ed osserviamo che perciò nel Libro I Patanjali vi dedica la sua attenzione. Egli dimostra che la mente è, come egli la definisce, "modificata" da tutti gli oggetti o soggetti che le sono presentati o verso i quali è rivolta. Questo può essere ben illustrato dalla citazione di un brano del commentatore: "L’organo interno è paragonato (nel Vedanta Paribbasha) all’acqua, a motivo della sua capacità di adattarsi alla forma di qualsiasi modello. Come le acque di un serbatoio, defluendo attraverso un’apertura, passano per un canale in bacini e prendono una forma rettangolare o un’altra forma, secondo la geometria del recipiente che le contiene, nello stesso modo l’organo interno, manifestandosi, passa per la vista o per un altro canale, per raggiungere un oggetto – per esempio una brocca – e si modifica secondo la forma della brocca o di un altro oggetto. É questa condizione alterata dell’organo interno – o mente – che è chiamata la sua modificazione". Mentre l’organo interno si modella in tal modo sull’oggetto, nello stesso tempo riflette tale oggetto e le sue proprietà, sull’anima. I canali attraverso i quali la mente è obbligata a passare per giungere ad un oggetto o ad un soggetto, sono gli organi della vista, del tatto, del gusto, dell’udito, etc… Così, dunque, attraverso l’udito essa assume la forma dell’idea che può essere data con la parola o, attraverso gli occhi, dalla lettura, prende la forma di ciò che è stato letto, ed ancora, le sensazioni quali il caldo e il freddo la modificano direttamente e indirettamente per associazione e ricordo, e ugualmente avviene nel caso di tutti i sensi e di tutte le sensazioni. É inoltre risaputo che quest’organo interno, pur avendo un’innata disposizione ad assumere l’una o l’altra modificazione che sono in funzione di un costante ritorno degli oggetti – sia che questi ultimi si presentino direttamente, sia che, per associazione od altrimenti, provengano unicamente dal potere di riproduzione del pensiero – può essere controllato e ridotto ad uno stato di calma assoluta. É proprio questo che Patanjali intende con "impedire le modificazioni". Si vede bene in questo caso, la necessità della teoria che fa dell’anima la reale sperimentatrice e conoscitrice. Poiché se noi fossimo solo la mente o degli schiavi della mente, non potremmo mai raggiungere la reale conoscenza, perché l’incessante panorama degli oggetti modifica continuamente quest’organo non controllato dall’anima, impedendogli sempre di raggiungere la vera conoscenza. Ma poiché l’Anima è considerata superiore alla mente, essa ha il potere d’impossessarsene e di tenerla sotto controllo, a condizione però che noi utilizziamo la volontà per aiutarla in questo lavoro. É allora solamente che si realizzano il fine reale ed il vero scopo della mente. Queste tesi implicano che la volontà non è completamente dipendente dalla mente ma che può esserne separata e, inoltre, che la conoscenza esiste come un’astrazione. La volontà e la mente non sono che dei servitori a disposizione dell’Anima. Ma da così lungo tempo siamo dominati dalla vita materiale e non ammettiamo che il reale conoscitore – e il solo sperimentatore – è l’anima, che questi servitori restano gli usurpatori della sovranità dell’anima. É per questo che nelle antiche opere Indù si afferma che "l’Anima è l’amica del sé ma anche la sua nemica" e che l’uomo deve elevare il sé attraverso il Sé". In altre parole, c’è una lotta costante tra il sé inferiore ed il Sé Superiore. Le illusioni della materia intraprendono di continuo una guerra senza tregua contro l’Anima, tendendo sempre a trascinare verso il basso i principî interiori i quali, essendo situati in posizione mediana tra il superiore e l’inferiore, sono capaci di raggiungere sia la salvezza che la dannazione. Negli Aforismi non c’é alcuna allusione alla volontà. Essa pare sottintesa, sia come una realtà ben compresa ed ammessa, sia come uno dei poteri dell’anima stessa di cui non si discute. Numerosi antichi Autori Indù ritengono, e noi siamo disposti ad adottare il loro punto di vista, che la Volontà è un potere spirituale, una funzione o un attributo, costantemente presente in ogni parte dell’Universo. É tuttavia un potere incolore al quale non può essere attribuita nessuna qualità di bene o di male, ma che può essere usato in qualsiasi modo scelto dall’uomo. Quando tale potere è considerato come ciò che nella vita ordinaria si dice "volontà", osserviamo che esso opera unicamente in connessione con il corpo materiale e con la mente, guidato dal desiderio; considerato sotto l’aspetto dell’influenza dell’uomo sulla vita, esso è più misterioso, perché la sua azione va oltre la portata della mente; analizzato nei suoi rapporti con la reincarnazione dell’uomo o con la persistenza dell’Universo manifestato attraverso un Manvantara, esso appare ancora più lontano dalla nostra comprensione e vasto nel suo fine. Nella vita ordinaria la volontà non è schiava dell’uomo, ma essendo guidata solo dal desiderio, essa fa dell’ uomo uno schiavo dei propri desideri. É da questo fatto che ha avuto origine l’antica massima cabalistica "dietro la Volontà sta il Desiderio". I desideri, trascinando di continuo l’uomo in ogni direzione, lo inducono a commettere delle azioni e a generare dei pensieri che sono di natura tale da determinare la causa e la forma di numerose incarnazioni, e lo asservono ad un destino contro il quale egli si ribella e che costantemente distrugge e ricrea il suo corpo mortale. É un errore dire di color che sono conosciuti come uomini di forte volontà, che i loro voleri sono completamente a loro asserviti, poiché essi sono talmente imprigionati nel desiderio, che quest’ultimo, essendo forte, mette in azione la volontà verso la realizzazione degli scopi desiderati. Ogni giorno osserviamo degli uomini, buoni o cattivi, prevalere nei loro diversi campi di azione. Dire che negli uni la volontà è buona e negli altri è cattiva è un errore evidente e dovuto al fatto di scambiare la volontà, lo strumento o la forza, con il desiderio che la mette in azione verso uno scopo buono o cattivo. Ma Patanjali e la sua scuola sapevano bene che si sarebbe potuto scoprire il segreto che permette di dirigere la volontà con una forza dieci volte superiore all’ordinaria, se essi ne avessero indicato il metodo, e che degli uomini malvagi dai forti desideri e privi di coscienza, l’avrebbero utilizzata impunemente contro i loro simili; essi sapevano anche che perfino degli studenti sinceri possono essere sviati dalla spiritualità se rimangono abbagliati dai risultati stupefacenti prodotti da un addestramento soltanto della volontà. Così Patanjali, per queste ed altre ragioni, conservò il silenzio sull’argomento. Il suo sistema postula che Ishwara, lo spirito nell’uomo, non è toccato dalle afflizioni, dalle azioni, dai frutti delle azioni o dai desideri, e che quando un fermo atteggiamento è assunto allo scopo di raggiungere l’unione con lo spirito attraverso la concentrazione, Esso viene in aiuto del sé inferiore e lo eleva gradualmente a dei piani superiori. In questo processo la Volontà acquisisce gradualmente una tendenza sempre più forte ad agire secondo una linea differente da quella tracciata dalla passione o dal desiderio. Così essa si libera dal dominio del desiderio e finisce per assoggettare la mente stessa. Ma fino a quando la perfezione in tale pratica non è raggiunta, la volontà, continua ad agire secondo il desiderio, soltanto che quest’ultimo si è trasformato in aspirazione per cose più elevate e lontane da quelle della vita materiale. Il Libro III ha lo scopo di definire la natura della condizione di perfezione, che qui è detta Isolamento. L’Isolamento dell’Anima in questa filosofia non significa che un uomo si separa dai suoi simili diventando freddo e duro, ma significa unicamente che l’Anima è separata o liberata dalla schiavitù della materia e del desiderio, essendo a questo punto capace di agire in vista di compiere il fine della Natura e dell’Anima Universale che include le anime di tutti gli uomini. Questo fine è chiaramente indicato negli Aforismi. Numerosi lettori e pensatori superficiali, per non parlare di quelli che si oppongono alla filosofia Indù, non mancano di affermare che gli Jivanmukta o Adepti, si separano da ogni forma di vita umana, da ogni attività e da ogni partecipazione delle faccende collettive, isolandosi su delle inaccessibili montagne dove nessun grido può raggiungere le loro orecchie. Una tale accusa è direttamente in antitesi ai principî della filosofia che prescrive il metodo ed i mezzi per raggiungere una simile condizione. Questi Esseri certamente sono inaccessibili all’osservazione umana ordinaria ma, come chiaramente espone questa stessa filosofia, hanno l’intera natura come obiettivo, e questo includerà tutti gli uomini viventi. Può sembrare che non si interessino ai progressi od ai miglioramenti transitori, ma essi lavorano dietro le scene dell’autentica illuminazione fino a quando i tempi e gli uomini saranno maturi per sopportare la loro apparizione in forma mortale. Il termine "conoscenza" come è qui usato, ha un significato più vasto di quello che abitualmente gli diamo. Esso implica una completa identificazione della mente, per un certo periodo di tempo, con un oggetto o soggetto qualunque sui quali può essere diretta. La scienza e la metafisica moderna non ammettono che la mente possa conoscere oltre i confini di certi metodi prestabiliti e di limitate distanze, e nella maggior parte dei suoi rami l’esistenza dell’anima viene negata o ignorata. Non è ad esempio concepibile che si possano conoscere i costituenti di un blocco di pietra senza mezzi meccanici o chimici adoperati direttamente sull’oggetto, e che si possa diventare coscienti dei pensieri e dei sentimenti di un’altra persona, a meno che essa non li esprima con parole od in azioni. Quando i metafisici trattano dell’anima, restano nel vago e sembrano temere l’approccio scientifico poiché non è possibile sottoporre l’anima ad un’analisi chimica, né pesarne le parti su di una bilancia. L’Anima e la Mente vengono ridotti alla condizione di strumenti limitati che registrano certi fatti fisici posti alla loro portata attraverso dei mezzi meccanici. In un altro campo,m come ad esempio in quello della ricerca etnologica, si ritiene che si possa ottenere questa o quell’altra informazione su certe razze di uomini, per mezzo dell’ osservazione fatta con l’aiuto della vista, del tatto, del gusto e dell’udito: in questo caso la mente e l’anima sono ancora dei semplici registratori. Ma il sistema di Patanjali sostiene che il praticante che ha raggiunto certi stati, può dirigere la sua mente su di un blocco di pietra collocato lontano o vicino, su di un uomo o su di una classe di uomini e che può, per mezzo della concentrazione, conoscere tutte le qualità intrinseche di questi oggetti, come pure le loro caratteristiche occasionali, e sapere tutto attorno al soggetto. Così, ad esempio, per quanto concerne gli indigeni dell’Isola di Pasqua, l’asceta può conoscere non solo quello che è visibile attraverso i sensi o che può essere conosciuto attraverso una lunga osservazione o ciò che è stato registrato, ma anche le qualità profonde e la linea esatta di discendenza e di evoluzione del particolare tipo umano esaminato. La scienza moderna non può sapere niente degli indigeni dell’Isola di Pasqua e non fa che delle vaghe supposizioni sulla loro origine; essa non può nemmeno dirci con certezza ciò che è e da dove è venuto un popolo come quello Irlandese, che ha sotto gli occhi da così lungo tempo. Nel caso del praticante dello Yoga egli è capace, attraverso il potere della concentrazione, di identificarsi completamente con la cosa considerata e di compiere così, interiormente, l’esperienza diretta di tutti i fenomeni e di tutte le qualità manifestate dall’oggetto. Perché sia possibile accettare tutto ciò che precede, è necessario ammettere l’esistenza, l’utilizzazione e la funzione di un mezzo eterico che compenetra tutte le cose, chiamato Luce Astrale o Akasa dagli Indù. La distribuzione universale di questo mezzo è un fatto della natura che si trova metafisicamente espresso nei termini "Fratellanza Universale" e "Identità Spirituale". É in questo mezzo, con il suo aiuto, e attraverso la sua utilizzazione, che le caratteristiche ed i movimenti di tutti gli oggetti sono universalmente conoscibili. Esso è, per così dire, la superficie sensibile sulla quale sono incise tutte le azioni umane, tutti gli oggetti, i pensieri e le situazioni. L’indigeno dell’Isola di Pasqua è il residuo di un ceppo che ha lasciato la sua impronta in questa Luce Astrale, e porta con sé la traccia indelebile della storia della propria razza. L’asceta, durante la concentrazione, fissa la propria attenzione su questa impronta, e poi legge la registrazione perduta per la scienza. Ogni pensiero di Herbert Spencer, di un Mill, di un Bain o di un Huxley, è collegato, nella Luce Astrale, al rispettivo sistema filosofico da essi formulato, e tutto ciò che l’asceta deve fare consiste nel trovare un semplice punto di partenza connesso con uno di questi pensieri e di leggere poi nella luce astrale, tutto ciò che essi hanno pensato. Ma Patanjali e la sua scuola, considerano tali prodigi come relativi alla materia e non allo spirito, per quanto essi sembrare piuttosto assurdi a delle orecchie occidentali o, tutto al più, se si concede loro qualche credito, appaiano come dei prodigi provenienti dallo spirito.
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WILLIAM QUAN JUDGE New York, 1889
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LIBRO I
La Concentrazione o Yoga (1)
La particella sanscrita atha che è stata tradotta con "in verità", annunzia al discepolo che un argomento ben definito sta per essere esposto, richiede la sua attenzione e serve anche da benedizione. Monier Williams afferma che questa è "un particella di buon auspicio e di introduzione ma che spesso è difficilmente esprimibile nelle nostre lingue occidentali."
In altre parole, la mancanza di concentrazione del pensiero è dovuta al fatto che la mente, chiamata qui "il principio pensante", è soggetta a delle costanti modificazioni a causa del suo disperdersi su di una molteplicità di soggetti. Così la "concentrazione" equivale alla correzione della tendenza alla dispersione ed al conseguimento di ciò che gli Indù chiamano "il punto unico" (2), o il potere di costringere la mente, in qualunque momento, a considerare un solo soggetto di pensiero, escludendone ogni altro. É su questo Aforisma che si impernia tutto il metodo del sistema. La ragione dell’assenza continua della concentrazione è che la mente è modificata da tutti i soggetti ed oggetti che le si presentano; essa è, per così dire, trasformata in quel soggetto od oggetto. La mente perciò, non è il potere supremo o più elevato; essa non è che una funzione, uno strumento con il quale l’anima lavora, percepisce le cose e compie delle esperienze. Neppure il cervello deve essere confuso con la mente, non essendo a sua volta che uno strumento di quest’ultima. Ne consegue che la mente ha un suo proprio piano, diverso da quello dell’anima e del cervello, per cui si dovrebbe imparare a far uso della volontà che è anch’essa un potere distinto dalla mente e dal cervello, in maniera tale da usare la mente come un nostro servitore ogniqualvolta e per quanto tempo lo desideriamo, per considerare qualunque cosa abbiamo scelto, invece di permetterle di vagare da un soggetto all’altro, secondo le loro sollecitazioni.
Questo si riferisce alla concentrazione perfetta che è lo stato in cui, dopo che sono state impedite le modificazioni di cui si parla nell’Aforisma 2, l’anima passa, ritrovandosi in una condizione ove non è più soggetta all’alterazione o alle impressioni prodotte da un soggetto qualsiasi. L’ "anima" di cui si parla, non è Atma, lo Spirito.
Questo si riferisce alla condizione dell’anima nella vita ordinaria quando non è praticata la concentrazione e significa che allorquando la mente, l’organo interiore, è influenzata o modificata attraverso i sensi dalla forma di qualche oggetto, anche l’anima – che percepisce l’oggetto attraverso il proprio organo, la mente – si trova, per così dire, mutata in quella stessa forma, così come una statua di marmo, bianca come la neve, osservata sotto una luce cremisi, appare di questo colore allo spettatore e così rimane per gli organi visivi, durante tutto il tempo che questa luce colorata la illumina.
Esse sono: la Conoscenza Corretta, la Concezione Errata, la Fantasia, il Sonno e la Memoria. La Conoscenza corretta risulta dalla Percezione, dalla Deduzione e dalla Testimonianza. La Concezione Errata è una Falsa Nozione derivante da una mancanza di Conoscenza Corretta.
La Fantasia è una nozione priva di ogni base reale, che si sviluppa da una conoscenza suggerita da delle parole.
Esempi sono i concetti: "le corna della lepre" e "la testa di Rahu". Uno che senta l’espressione "la testa di Rahu", immagina naturalmente che ci sia un Rahu che possegga questa testa, mentre questo mitico mostro che, si dice, causi le eclissi ingoiando il sole, è formato solo da una testa ed è privo di corpo. E, sebbene si usi di frequente l’espressione "le corna della lepre", è arcinoto che non esiste nulla di simile in natura. Nella stessa maniera molte persone continuano a parlare del "levare" e del "calare" del sole, benché esse si attengano alla teoria contraria.
La Memoria è il non abbandono di un oggetto di cui si è divenuti coscienti.
L’impedimento delle modificazioni della mente summenzionato, deve essere ottenuto per mezzo dell’Esercizio e del Non—Attaccamento.
L’Esercizio è lo sforzo continuo, o ripetuto, di mantenere la mente nel suo stato di calma.
Questo significa che per ottenere la concentrazione dobbiamo continuamente compiere degli sforzi per acquisire quel controllo sulla mente che ci permetterà in un momento qualsiasi, quando ciò ci sembri necessario, di ridurla ad una condizione di immobilità; o di concentrarla su di un punto unico escludendo tutto il resto.
Da ciò, lo studente non deve concludere che non potrà mai acquisire la concentrazione se non le avrà dedicato ogni istante della sua vita. Le parole "senza interruzione" si applicano solo alla durata di tempo ch è stato riservato per questa pratica.
Ecco la realizzazione di una condizione di esistenza nella quale la coscienza non è influenzata dalle passioni, dai desideri e dalle ambizioni, che contribuiscono a modificare la mente.
Il genere di meditazione di cui si tratta consiste in una riflessione nella quale la natura del soggetto da considerare è ben conosciuta, senza dubbi né errori, e si traduce in una conoscenza distinta che esclude tutte le altre modificazioni della mente, tranne il soggetto che è stato scelto per tale riflessione.
Il risultato del raggiungimento del quarto grado, chiamato percezione Egoica, è la chiara consapevolezza che l’oggetto o il soggetto con cui la meditazione era cominciata è scomparso e che è rimasta solo la coscienza di sé; ma questa coscienza di sé non include affatto la coscienza dell’Assoluto o dell’Anima Suprema.
La condizione di meditazione ottenuta da coloro il cui discernimento non giunge fino allo spirito puro, dipende dal mondo fenomenico.
Nella pratica di coloro che sono, o potrebbero essere, capaci di discernimento in ciò che concerne lo spirito puro, la meditazione è preceduta da Fede, Energia, Attenzione fissa (su di un punto unico) e Discernimento, o discriminazione completa di ciò che deve essere conosciuto.
Il commentatore fa qui rilevare che "in colui che possiede la Fede sorge l’Energia o la costanza nella meditazione. Così perseverando, scaturisce la memoria dei soggetti passati e la sua mente viene assorbita nella considerazione attenta generata dal ricordo del soggetto e colui la cui mente è immersa nella meditazione giunge ad un totale discernimento della cosa che considera".
Seguendo la natura moderata, intermedia o trascendente dei metodi adottati, c’è una distinzione da fare tra coloro che praticano lo Yoga.
Lo stato di meditazione astratta può essere ottenuto attraverso una profonda devozione verso lo Spirito Supremo, considerato nella sua manifestazione comprensibile, come Ishwara.
É stato detto che questa profonda devozione è uno dei mezzi fondamentali per ottenere la meditazione astratta ed i suoi risultati. "Ishwara" è lo Spirito nel corpo.
In Ishwara l’onniscenza che nell’uomo non esiste in germe, diviene infinita.
Ishwara è il precettore di tutti, perfino dei primi esseri creati, perché Egli non è limitato dal tempo.
Il suo nome è OM.
La ripetizione di questo nome dovrebbe essere fatta riflettendo sul suo significato.
OM è la prima lettera dell’alfabeto sanscrito. La sua pronunzia comprende tre suoni, di cui un O lunga (Au), una U breve e la "pausa" ovvero la consonante labiale M. A questa triplice natura si ricollega un profondo significato mistico e simbolico. Essa esprime tre qualità distinte per quanto unite: Brahma, Vishnu e Siva, ovvero Creazione, Preservazione e Distruzione. Considerata nell’insieme essa implica "l’Universo". Nella sua applicazione all’uomo au si riferisce alla scintilla dello Spirito Divino che si trova nell’umanità; u al corpo attraverso il quale lo Spirito si manifesta; m alla morte del corpo ossia alla scomposizione nei suoi elementi materiali. In rapporto ai cicli che interessano ogni sistema planetario, essa implica in primo luogo lo Spirito, rappresentato da au, come base dei mondi manifestati, poi il corpo o materia manifestata, attraverso cui opera lo Spirito, rappresentata dalla u; ed infine, rappresentato dalla m, "l’arresto o il ritorno del suono alla sua sorgente", il Pralaya o la Dissoluzione dei mondi. Nell’occultismo pratico questa parola è messa in rapporto con il Suono o con la Vibrazione e con tutte le proprietà e gli effetti che ne derivano, essendo questo uno dei più grandi poteri della natura. Se si usa questa parola nella disciplina pratica, la sua pronunzia, a mezzo dei polmoni e della gola, produce un effetto particolare sul corpo umano. Nell’Aforisma 28 questo nome è impiegato nel suo significato più alto il quale include necessariamente tutti gli altri. La pronunzia della parola Om in tutte le pratiche della disciplina, ha un rapporto potenziale con la separazione cosciente dell’anima dal corpo.
Qui s’intende ogni verità che si è accettata e che si è riconosciuta come tale.
Le principali occasioni di distrazione della mente sono la Cupidigia e l’Avversione. Questo aforisma non vuole intendere che la virtù ed il vizio dovrebbero essere considerati dallo studente con indifferenza, ma che egli non dovrebbe fissare con piacere la propria mente sulla felicità o sulla virtù, né con avversione sulla pena o sul vizio. In altri termini, egli dovrebbe considerare tutti con uno spirito imparziale, e la pratica della Benevolenza, della Compassione e della Compiacenza conduce ad uno stato gioioso della mente che tende a rafforzarla e a renderla stabile.
Un mezzo per ottenere la stabilità della mente può essere trovato in una cognizione sensoriale diretta.
La conoscenza diretta di un soggetto spirituale, quando si produce, può anche servire a questo stesso scopo.
Oppure, fissando il pensiero su di un soggetto privo di qualità passionali, quale ad esempio un soggetto idealmente puro, si può trovare in ciò tale mezzo.
La stabilità della mente può anche essere ottenuta riflettendo sulla conoscenza che si presenta in un sogno.
Od ancora, meditando su di un soggetto che si approva.
Lo studente la cui mente è stata in tal modo resa stabile, ottiene una conoscenza profonda che va dall’Atomo all’Infinito.
La mente che così è stata allenata, al punto che tutte le modificazioni ordinarie dovute alla sua azione non sono più presenti, ad eccezione di quelle che si verificano durante la cosciente immedesimazione in un oggetto scelto per la contemplazione, si trasforma nell’immagine di ciò su cui si sta riflettendo, giungendo in tal modo alla piena comprensione della sua natura.
Questa modificazione della mente nell’immagine dell’oggetto su cui si medita, è detta tecnicamente la condizione Argomentativa in cui c’è una certa mescolanza tra la parola che designa l’oggetto, il significato e l’applicazione di questa parola e la conoscenza astratta delle qualità e degli elementi dell’oggetto per sé.
La condizione Non—Argomentativa della meditazione si realizza quando la parola che descrive l’oggetto scelto per la meditazione ed il suo significato sono scomparsi dal piano della contemplazione e la cosa astratta stessa, libera da distinzioni qualitative, si presenta alla mente come un’unica entità.
Questi due aforismi (42 e 43) descrivono il primo ed il secondo stadio della meditazione, in cui la mente si concentra su oggetti di natura grossolana o materiale. L’aforisma che segue si riferisce allo stato in cui oggetti meno grossolani o più sottili sono scelti per la meditazione contemplativa.
La "meditazione con un proprio seme" è quel genere di meditazione in cui è ancora presente dinanzi alla mente un oggetto ben definito su cui meditare.
In questo caso, allora, si produce quella Conoscenza che è assolutamente libera dall’Errore. Questo genere di conoscenza differisce da quello dovuto alla testimonianza a alla deduzione; poiché nella ricerca della conoscenza basata su queste ultime, la mente deve considerare molti dettagli e non è in relazione con il campo generale della conoscenza stessa. La corrente del pensiero auto—riproducentesi che da questa ne risulta, blocca la formazione di ogni altra corrente di pensiero. Si ritiene che esistano due correnti principali di pensiero:
La "meditazione senza seme" è quella in cui le potenzialità della mente sono state risvegliate ad un punto tale che l’oggetto scelto per la meditazione è scomparso dal piano della mente e non vi è più alcuna traccia di esso, mentre il pensiero continua il proprio sviluppo su di un piano superiore.
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Fine del Libro Primo
LIBRO II
Mezzi della Concentrazione
Ciò che s’intende qui per "mortificazione" è la pratica insegnata in altre opere come nel Dharma Shastra, che comprende le penitenze ed i digiuni; la "recitazione a bassa voce" è la ripetizione sussurrata di formule tradizionali, preceduta dal nome mistico dell’Essenza Suprema indicato nell’Aforisma 27 del Libro I; l’"abbandono all’Anima Suprema" consiste nell’affidare all’Anima Divina o Anima Suprema, tutte le proprie azioni, senza interesse per i loro risultati.
Le afflizioni che sorgono nel discepolo sono: l’Ignoranza, l’Egoismo, il Desiderio, l’Avversione ed il tenace Attaccamento all’esistenza terrestre. L’Ignoranza è il terreno d’origine di tutte le altre suddette afflizioni, siano esse ancora latenti, indebolite, o palesi.
L’Ignoranza è la nozione che il non—eterno, l’impuro, il male e tutto ciò che non è l’anima siano rispettivamente l’eterno, il puro, il bene e l’anima. L’Egoismo consiste nell’identificare il potere che vede con la facoltà di vedere.
Vale a dire, confondere l’anima che realmente vede con lo strumento che essa impiega per questa funzione, cioè con la mente, o – ad un grado ancor più alto di errore – con gli organi di senso che sono a loro volta gli strumenti della mente; come ad esempio, quando una persona ignorante pensa che è il suo occhio che vede, mentre in realtà è la sua mente che usa l’occhio come strumento di visione.
L’Avversione consiste nell’indugiare sul dolore.
Il tenace Attaccamento all’esistenza terrestre è inerente a tutti gli esseri senzienti e si perpetua attraverso a tutte le incarnazioni, poiché possiede un potere capace di auto-riprodursi. Esso è provato sia dal saggio che dal non—saggio.
C’è nello spirito una tendenza naturale, durante tutto un Manvantara, a manifestarsi sul piano materiale, sul quale ed attraverso il quale solamente, le monadi spirituali possono completare il loro sviluppo; e questa tendenza, agendo attraverso la base fisica comune a tutti gli esseri senzienti, è estremamente potente e si continua attraverso tutte le incarnazioni, aiutando di fatto la loro genesi e rinnovellandosi ad ognuna di esse.
Se queste afflizioni modificano la mente imponendosi all’attenzione, possono essere eliminate con la meditazione.
Tali afflizioni sono la radice che produce risultati nelle azioni o nelle opere, fisiche e mentali. In quanto esse costituiscono i nostri meriti o i nostri demeriti, danno frutti sia nello stato visibile che in quello invisibile.
Fino a quando esiste una tale radice di merito o di demerito, essa fruttificherà durante ogni successiva vita sulla terra, determinando condizione sociale, longevità, piaceri e sofferenze.
La felicità o la sofferenza sono i frutti del merito o del demerito, secondo che la causa è la virtù od il vizio.
Ma all’uomo che ha raggiunto la perfezione dello sviluppo spirituale, tutte le cose del mondo appaiono ugualmente fonte di pena, dal momento che le modificazioni della mente dovute alle qualità naturali si oppongono al raggiungimento della condizione più alta. Infatti, fino a quando questa non è raggiunta, la presa di possesso di una qualsiasi forma dotata di corpo costituisce un intralcio, ed ansietà ed impressioni di ogni genere si rinnovano di continuo.
Ciò che dal discepolo deve essere evitato è il pensiero od il timore della sofferenza futura.
Il passato non può essere cambiato o modificato; ciò che fa parte delle esperienze presenti non può e non dovrebbe essere evitato, ma ciò che invece dovrebbe essere evitato sono le previsioni fonte di angoscia od i timori del futuro ed ogni azione od impulso capaci di causare sofferenza, nel presente o nell’avvenire a noi stessi o agli altri.
L’Universo, che comprende il visibile e l’invisibile, la cui natura essenziale è composta di purezza, azione e riposo
Le divisioni delle qualità sono: il molteplice e l’unitario, ciò che può essere scomposto una sola volta e ciò che non può essere ridotto.
Il "molteplice" può essere rappresentato dagli elementi grossolani e dagli organi dei sensi; "l’unitario", dagli elementi sottili e dalla mente; "ciò che può essere scomposto una volta sola", dall’intelletto che può risolversi nella materia indifferenziata e non oltre; e "ciò che non può essere ridotto", dalla materia indivisibile.
É solamente per lo scopo dell’anima che l’Universo esiste.
Il Commentatore aggiunge: "La Natura nella sua attività energetica non opera in tal modo per qualche scopo proprio, ma con un piano che potrebbe essere espresso forse con le parole ‘compiere l’esperienza dell’Anima’".
L’unione dell’anima con l’organo del pensiero e perciò con la natura, è la causa della sua percezione della condizione attuale della natura dell’Universo e della stessa anima.
La causa di questa unione è ciò di cui ci si deve liberare, e questa causa è l’ignoranza.
Tale liberazione consiste nella cessazione della suddetta unione che determina la scomparsa dell’ignoranza, e questa condizione è detta l’Isolamento dell’anima.
Quanto è espresso in questo Aforisma e nei due precedenti, significa che l’unione dell’anima e del corpo, durante ripetute reincarnazioni, è dovuta alla mancanza, in tale condizione, di una conoscenza discriminativa della natura dell’anima e dei suoi aspetti collaterali, e che, quando questa conoscenza discriminativa è stata raggiunta, l’unione, dovuta all’assenza di un tale discernimento, cessa spontaneamente.
L’importanza di ciò – fra l’altro – è che l’uomo che ha raggiunto la perfezione dello sviluppo spirituale conserva la propria continuità di coscienza nel corpo, al momento di lasciarlo e quando passa nelle sfere superiori. Parimenti, questa continuità di coscienza persiste immutata quando egli lascia le sfere superiori per ritornare nel proprio corpo e riprendere le sue attività sul piano materiale. (5)
Fino a quando questa conoscenza discriminativa perfetta non è raggiunta, da quelle pratiche che conducono alla concentrazione, deriva un’illuminazione più o meno chiara che rimuove efficacemente le impurità.
Le pratiche che conducono alla concentrazione sono otto: Astinenza, Osservanze religiose, Posizioni, Regolazione della Respirazione, Controllo dei sensi, Attenzione, Contemplazione e Meditazione. L’Astinenza consiste nel non uccidere, nella veracità, nel non rubare, nella continenza e nel non desiderare con bramosia.
Questi, senza distinzioni di rango, luogo, tempo od impegni, sono i grandi doveri universali.
Le Osservanze religiose sono: la purificazione della mente e del corpo, la contentezza, l’austerità, la recitazione a bassa voce (7) e la perseverante devozione all’Anima Suprema.
Al fine di rimuovere ed eliminare dalla mente le cose reprensibili, contribuisce efficacemente l’evocazione mentale dei lor opposti.
Le cose riprovevoli, siano esse state compiute, causate o semplicemente approvate; sia che derivino dalla cupidigia, dalla collera o dall’illusione; siano esse di poco conto, di una certa gravità o molto gravi, generano tutte numerosi frutti sotto forma di dolore ed ignoranza; di conseguenza, "l’evocazione dei loro opposti" è in ogni caso raccomandabile.
Quando l’inoffensività e la gentilezza sono pienamente sviluppate nello Yogi, cioè in colui che ha raggiunto la matura illuminazione dell’anima, si realizza la completa assenza d’inimicizia fra tutti gli uomini e gli animali che si trovano nelle sue vicinanze.
Quando la veracità è completa, lo Yogi diventa il punto focale per il Karma che risulta da tutte le azione , buone o cattive.
Quando l’astinenza dal furto, nel pensiero e nell’azione è completa nello Yogi, egli ha il potere di ottenere tutte le ricchezze materiali.
Quando la continenza è completa, vi è un aumento di forza nel corpo e nella mente. Questo non vuol dire che lo studente che pratica solo la continenza e trascura le altre pratiche indicate, acquisterà forza. Tutte le parti del sistema devono esser perseguite di pari passo sui piani mentale, morale e fisico.
Qui, "bramosia", non si riferisce solo al desiderio degli oggetti, ma anche al desiderio di gradevoli condizioni terrene, o anche all’esistenza terrena stessa.
Dalla purificazione della mente e del corpo nasce inoltre nello Yogi la completa prevalenza delle qualità di bontà, disponibilità, dedizione agli altri, padronanza dei sensi, e l’attitudine alla contemplazione ed alla comprensione dell’anima come di qualcosa completamente diverso dalla natura esteriore.
Attraverso la perfetta contentezza, lo Yogi acquisisce la suprema felicità.
Quando l’austerità è integralmente praticata dallo Yogi, il risultato è il perfezionamento ed un affinamento dei sensi del corpo ottenuti con la rimozione delle impurità.
Con la pratica della recitazione sussurrata si realizza l’incontro con la propria Deità preferita.
Attraverso delle invocazioni correttamente pronunciate – a cui si fa riferimento con la significativa espressione "recitazione sussurrata" – i poteri superiori della natura, ordinariamente invisibili all’uomo, sono costretti a rivelarsi alla visione dello Yogi; e, per il fatto stesso che tutti i poteri della natura non possono essere evocati contemporaneamente, la mente deve essere diretta verso una forza od un potere particolare della natura da cui l’uso della frase "con la propria deità preferita".
Una posizione assunta dallo Yogi deve essere stabile e piacevole.
Per rendere ciò più chiaro alla mente dello studente, è qui necessario rilevare che le "posizioni" descritte in vari sistemi di "Yoga", non sono assolutamente essenziali al successo perseguito nella pratica della concentrazione e al raggiungimento dei suoi risultati ultimi. Tutte le "posizioni" descritte dagli autori Indù sono basate su di un’accurata conoscenza degli effetti fisiologici che esse inducono, ma, ai nostri giorni, esse non sono possibili che per quegli Indù che vi sono abituati fin dalla loro tenera infanzia.
Questa regolazione della respirazione durante le sue fasi di espirazione, inspirazione e ritenzione, è inoltre soggetta a delle condizioni di tempo, luogo e di numero, ognuna di queste potendo essere lunga o breve.
Vi è una tecnica particolare per regolare la respirazione che è in rapporto sia con quanto detto nell’aforisma precedente, sia con la sfera interiore del respiro.
Gli Aforismi 49—50—51 alludono alla regolazione del respiro come una parte degli esercizi fisici menzionati nella nota dell’Aforisma 46, la conoscenza delle cui regole e prescrizioni, da parte dello studente, è sottointesa da Patanjali. L’Aforisma 50 si riferisce unicamente alla regolazione dei diversi periodi, del grado di intensità e del numero di alternanze delle tre fasi respiratorie: espirazione, inspirazione e ritenzione del respiro. Ma l’Aforisma 51 allude ad un’altra regolazione del respiro è cioè a quella governata dalla mente in modo da controllare la direzione del respiro e la sua conseguente influenza su alcuni centri nervosi di percezione situati all’interno del corpo, al fine di produrre degli effetti fisiologici, seguiti da effetti psichici.
E così la mente si trova pronta per gli atti consapevoli.
Il controllo dei sensi
Da ciò deriva una completa padronanza dei sensi.
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Fine del Libro Secondo
LIBRO III
Ciò è detto Dharana.
Questo è chiamato Dhyana.
Quando questa stabilità dell’attenzione, della contemplazione e della meditazione viene praticata nei confronti di un unico oggetto, tale pratica, nel suo insieme, è chiamata Sanyama. In Occidente non abbiamo alcun termine che traduca esattamente Sanyama. I traduttori hanno usato la parola restrizione, limitazione, ma essa non è né appropriata né esatta, benché sia una traduzione corretta. Quando un Indù dice che un asceta pratica la restrizione su di un oggetto qualsiasi, secondo questo sistema, intende dire che egli sta eseguendo il Sanyama, mentre nelle nostre lingue può significare che egli priva se stesso di qualcosa o di un’azione particolare e questo non è il senso di Sanyama. Noi abbiamo mantenuto la terminologia del testo ma l’idea è forse resa meglio con "perfetta concentrazione".
Questo "potere di discernimento" è una facoltà ben definita che solo tale pratica sviluppa e non è posseduta dalle persone ordinarie che non hanno coltivato la concentrazione.
Vi sono due tipi di correnti di pensiero che si auto-riproduce: la prima si genera dalla mente che è stata modificata e spostata dall’oggetto o dal soggetto contemplato; la seconda si produce quando la mente sta uscendo da tale modificazione e sta entrando in rapporto unicamente con la verità stessa. Nel momento in cui la prima corrente è soggiogata e la mente diventa attenta, quest’ultima viene contemporaneamente ad essere interessata da queste due correnti di pensiero auto-riproducentesi e questo stato tecnicamente è chiamato Nirodha.
Nello stato di meditazione chiamato Nirodha, la mente ha un flusso uniforme.
Quando ha superato e controllato completamente la sua inclinazione naturale a considerare oggetti svariati e comincia ad applicarsi su di un solo oggetto, si dice che la meditazione è stata raggiunta.
Quando la mente dopo essersi fissata su di un solo oggetto, ha cessato di essere interessata da ogni pensiero relativo alla condizione, alle qualità od alle relazioni della cosa pensata ma è completamente raccolta attorno all’oggetto stesso, si dice allora che essa è applicata su di un unico punto e questa condizione tecnicamente è chiamata Ekagrata.
Le tre classi principali di percezione che riguardano la proprietà caratteristica, la qualità distintiva o l’uso specifico ed i possibili cambiamenti nell’utilizzazione o nella relazione di un qualsiasi oggetto od organo del corpo, contemplati dalla mente, sono stati sufficientemente spiegati nell’esposizione che precede sulle modalità con cui la mente viene modificata. É molto difficile rendere questo Aforisma nella nostra lingua. Le tre parole qui tradotte come "proprietà caratteristica, qualità distintiva od uso specifico e possibili cambiamenti nella utilizzazione" sono, nell’originale, Dharma, Lakshana ed Avastha e possono essere così spiegate: Dharma è , per così dire, l’argilla di cui una giara è formata; Lakshana, l’idea di una tale giara così composta e Avastha, la consapevolezza che la giara si modifica ad ogni istante, poiché essa invecchia od è, in varia guisa, influenzata.
La terza classe summenzionata si riferisce ad un principio fondamentale di questa filosofia che sostiene che tutti gli oggetti "possono risolversi e si risolveranno in ultimo nella natura" od in un’unica sostanza fondamentale; ne consegue, ad esempio, che l’oro può essere considerato alla stregua di un elemento qualunque non differente dalla terra, ossia, in ultima analisi, che non può essere separato da essa.
L’asceta perviene alla conoscenza degli avvenimenti passati e futuri attraverso la pratica dle Sanyama nei riguardi delle triplici modificazioni mentali appena spiegate.
Si rimanda all’Aforisma 4 ove "Sanyama" è spiegato come l’uso o la pratica dell’attenzione, della contemplazione e della meditazione su di un singolo oggetto.
La conoscenza delle esperienze vissute in precedenti incarnazioni si risveglia nell’asceta che mantiene davanti alla propria mente le correnti del pensiero auto-riproducentesi e che si concentra su di esse.
La natura della mente di un altro individuo viene conosciuta dall’asceta quando egli concentra la sua propria mente su questo personaggio.
Una tale concentrazione, tuttavia, non rivelerà all’asceta la natura fondamentale della mente di questa persona, finché egli no praticherà il Sanyama con questo scopo preciso.
Attraverso la pratica della concentrazione sulle proprietà e sulla natura essenziale della forma, specialmente su quella del corpo umano, l’asceta sviluppa il potere di rendere invisibile il proprio corpo fisico agli altri, poiché in tal modo, viene bloccata la sua proprietà del Satwa che si manifesta come luminosità, viene separata dall’orgno della vista dell’osservatore. Ecco qui un’altra grande differenza fra questa filosofia e la scienza moderna. Le scuole di oggi ritengono che se un occhio sano si trova sull’asse dei raggi luminosi riflessi da un oggetto – quale un corpo umano – quest’ultimo sarà visto, non potendo nessuna azione della mente della persona osservata inibire le funzioni della retina e dei nervi ottici dell’osservatore. Ma secondo gli antichi Indù, tutte le cose sono viste a causa di quella differenziazione del Satwa – una delle tre grandi qualità che compongono tutte le cose – che si manifesta come luminosità, operando in unione con l’occhio, il quale è anch’esso una manifestazione di Satwa, in un altro suo aspetto. Entrambi devono trovarsi in collegamento; se la luminosità è assente o non è in rapporto con l’occhio dell’osservatore, l’oggetto non appare. E, poiché la natura della luminosità si trova completamente sotto il controllo dell’asceta, egli può, attraverso il procedimento citato, arrestarla e sottrarre all’occhio altrui un elemento essenziale per la visione di qualsiasi oggetto.
L’azione è di due specie: la prima è accompagnata dalla previsione delle conseguenze; la seconda è priva di qualsiasi conoscenza delle conseguenze. Con la pratica della concentrazione su queste due specie di azioni, l’asceta perviene a conoscere il momento della propria morte. L’antico commentatore differisce dagli altri su questo aforisma, in quanto sostiene che esso fa parte del testo originale, mentre gli altri sostengono che si tratta di una interpolazione. Il Karma che deriva da azioni di entrambe le specie nella presente e nelle passate incarnazioni, produce ed influenza i nostri attuali corpi, in cui stiamo compiendo azioni similari. L’asceta, attraverso una ferma e costante contemplazione di tutte le azioni compiute in questa e nelle passate incarnazioni, (vedere Aforisma 18) è capace di conoscere completamente tutte le conseguenze delle azioni commesse e perciò ha il potere di calcolare correttamente l’esatta durata della propria vita.
Praticando la concentrazione sui poteri degli elementi o del regno animale, l’asceta diviene capace di manifestarli in se stesso.
Concentrando la propria mente su degli oggetti piccolissimi, nascosti o distanti, in qualsiasi dipartimento della natura essi si trovino, l’asceta ne acquisisce una completa conoscenza.
Concentrando la propria mente sul sole, si sviluppa nell’asceta uan conoscenza che concerne tutte le sfere comprese tra la terra e il sole.
Concentrando la propria mente sulla luna, sorge nell’asceta una conoscenza delle stelle fisse.
Concentrando la propria mente sulla stella polare, l’asceta diviene capace di conoscere il periodo ed il moto di ogni stella compresa nel Brahmandra, di cui questa nostra terra è una parte.
"Brahmandra" significa qui il grande sistema da alcuni chiamato "universo", in cui questo mondo si trova.
Concentrando la sua mente sul centro nervoso nella cavità della gola, l’asceta è capace di superare la fame e la sete.
Concentrando la propria mente sul centro situato al di sotto della cavità della gola, l’asceta è capace di evitare ogni movimento del corpo, senza che i suoi muscoli esercitino alcuna resistenza.
Concentrando la propria mente sulla luce nella testa l’asceta acquisisce il potere di veder gli esseri divini.
Vengono qui presentati due concetti che hanno alcuna corrispondenza nel pensiero moderno. Il primo è l’esistenza di una luce nella testa; l’altro è quello di esseri divini che possono essere visti da coloro che si concentrano proprio su questa "luce nella testa". Si ritiene che un centro nervoso o corrente psichica chiamata Brahmarandhra—nadi emerga attraverso il cervello nei pressi della sommità del capo. In questo punto, più che in ogni altra parte del corpo, si concentra il principio luminoso della natura che è chiamato jyotis – la luce nella testa. E, poiché ogni risultato viene ottenuto attraverso l’uso di mezzi appropriati, la visione degli esseri divini può essere ottenuta mediante la concentrazione su quella parte del corpo che più strettamente è connessa con questi. Questo punto – l’estremità del Brahmarandhra—nadi – è anche il punto in cui si realizza il collegamento fra l’uomo e le forze solari.
Concentrando la propria mente su ciò che è detto Hridaya, l’asceta acquisisce la capacità di penetrazione e la conoscenza delle condizioni mentali, delle intenzioni e dei pensieri altrui, così come l’esatta comprensione dei proprî. Hridaya è il cuore. Vi è un certo disaccordo tra i mistici riguardo al fatto che si tratti del cuore quale muscolo o di qualche centro nervoso con cui è collegato, come nel caso dell’analoga istruzione della concentrazione sull’ombelico, mentre, in realtà, s’intende il territorio nervoso chiamato plesso solare.
Dal particolare tipo di concentrazione prima descritta, si sviluppa nell’asceta e rimane in lui una conoscenza permanente che concerne tutte le cose, siano esse percepite attraverso degli organi del corpo o altrimenti si presentino alla sua contemplazione.
I poteri precedentemente descritti sono soggetti a trasformarsi in ostacoli sul sentiero della perfetta concentrazione a causa della possibilità che il loro esercizio susciti meraviglia e procuri piacere. Ma non costituiscono ostacolo alcuno per l’asceta che è perfetto nella pratica indicata.
Riguardo alla "pratica indicata", vedere Aforisma 36—37, Libro III qui sopra.
Poiché questa filosofia sostiene che la mente, in quanto non è un prodotto del cervello, entra nel corpo attraverso una certa via e si collega con questo in una maniera particolare, quest’aforisma afferma anche che quando l’asceta acquisisce la conoscenza del procedimento esatto di congiunzione fra la mente ed il corpo, egli può collegare la propria mente con qualunque altro corpo e trasferire così il proprio potere di utilizzare gli organi della forma occupata, per sperimentare gli effetti generali dell’attività dei sensi.
Udana è il nome dato ad una delle cosiddette "atmosfere vitali". Queste, in realtà, sono certe funzioni nervose per le quali la nostra fisiologia non ha alcun nome e ciascuna delle quali assolve ad un suo preciso compito. Si può dire che conoscendole e sapendole dirigere, qualunque uomo diviene capace di modificare a volontà la polarità del proprio corpo fisico. Le stesse osservazioni si applicano anche all’aforisma seguente.
(Questo effetto è stato visto dall’interprete (10) in più occasioni, quando era in compagnia di una persona che aveva acquisito questo potere. La persona appariva come se possedesse una luminosità sotto la pelle).
La parola Akasa è stata tradotta sia come "etere" che come "luce astrale". In questo aforisma è impiegata nel primo senso. Si deve ricordare che il suono è la proprietà distintiva di questo elemento.
Quando l’asceta ha raggiunto la completa padronanza su tutte le influenze che il corpo ha sull’uomo interiore, ha abbandonato ogni interesse a suo riguardo e non ne é assolutamente più influenzato, scompare tutto ciò che offusca l’intelletto.
L’asceta acquisisce il controllo completo sugli elementi concentrando la propria mente sulle cinque classi delle loro proprietà nell’universo manifestato; la prima comprende le proprietà di carattere grossolano e fenomenico; la seconda, quelle della forma; la terza, quelle delle qualità sottili; la quarta, quelle che possono essere distinte in luce, azione ed inerzia; la quinta, quelle che hanno un’influenza, secondo i loro vari gradi, sulla produzione di risultati attraverso i loro effetti sulla mente.
Dall’acquisizione di tali poteri sugli elementi, derivano all’asceta varie perfezioni e cioè: il potere di proiettare il suo sé interiore fin nel più piccolo atomo, di estenderlo fino alle dimensioni del corpo più grande, di rendere a volontà il proprio corpo fisico leggero o pesante, di dare un’estensione illimitata al proprio corpo astrale o alle sue parti separatamente, di esercitare un’irresistibile volontà sulla mente altrui, di ottenere la suprema perfezione del corpo materiale e la capacità di conservare questa perfezione, una volta ottenuta.
La perfezione del corpo materiale consiste nel suo colore, nella bellezza della sua forma, nella sua forza e nella sua finezza.
L’asceta acquisisce il controllo completo sugli organi dei sensi, mediante la pratica del Sanyama (concentrazione) sulla percezione, sulla natura degli organi, sull’egoismo, sulla qualità degli organi in azione o in riposo e sul loro potere di produrre merito o demerito per la connessione della mente con essi. In questo modo si risvegliano nell’asceta i seguenti poteri: il potere di spostare il proprio corpo da un luogo ad un altro con la rapidità del pensiero; il potere di estendere l'’azione dei sensi oltre il limite dello spazio e degli ostacoli materiali e di cambiare a volontà qualsiasi oggetto naturale da una forma all’altra. Nell’asceta che ha ottenuto l’esatta conoscenza discriminativa della verità e della natura dell’anima, si sviluppa la conoscenza di tutte le forme di esistenza nella loro natura essenziale ed il dominio su di esse. L’asceta che ha ottenuto l’indifferenza perfino per l’ultima perfezione considerata, attraverso la distruzione degli ultimi germi del desiderio, perviene ad uno stato dell’anima che è detto Isolamento. (Vedere la nota sull’Isolamento nel Libro IV).
Una grande e sottilissima conoscenza nasce dalla discriminazione che segue la concentrazione della mente sulla relazione fra i momenti e la loro successione.
Qui Patanjali parla delle divisioni ultime del tempo, che non sono cioè suscettibili di un ulteriore frazionamento, e dell’ordine in cui esse si precedono e si succedono. Egli afferma che si può raggiungere una percezione di questi periodi minimi; di conseguenza, colui che giunge ad una tale discriminazione, si eleva ad una percezione superiore e più ampia di certi principî della natura che sono così celati che la filosofia moderna non sospetta neppure la loro esistenza. Sappiamo come tutti noi possiamo distinguere dei periodi temporali quali i giorni e le ore. Vi sono anche molti individui, matematici nati, che sono capaci di percepire la successione dei minuti e che possono dire esattamente, senza orologio, quanti ne sono trascorsi in un certo intervallo. I minuti così percepiti da questi matematici prodigiosi, non sono tuttavia le divisioni ultime del tempo alle quali si riferisce l’aforisma, poiché, essi stessi, sono composti da queste divisioni ultime. Nessuna regola può essere data per una tale concentrazione poiché essa è così avanzata sulla via del progresso che l’asceta trova da se stesso le regole, dopo aver dominato tutti i processi interiori.
La conoscenza che proviene da questa perfezione del potere discriminativo è chiamata la "conoscenza che salva dalla rinascita". Essa ha per oggetto tutte le cose e la loro natura e comprende tutto quello che è stato e tutto quello che è, senza limitazione di tempo, di luogo e di circostanze, come se tutto accadesse nel presente ed in presenza del contemplatore.
In questo aforisma e nel seguente, l’asceta in questione è diventato un Jivanmukta e non è più soggetto alla reincarnazione. Egli, tuttavia, può vivere ancora sulla terra ma non è più in alcun modo sottomesso al suo corpo, essendo in ogni istante la sua anima perfettamente libera. E tale è, si ritiene, la condizione di quegli esseri che nella letteratura teosofica sono chiamati Adepti, Mahatma o Maestri.
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Fine del Libro Terzo
LIBRO IV
La Natura Essenziale dell’Isolamento.
Fine del Libro Quarto
Possa Ishwara essere vicino ed aiutare
Coloro che leggono questo libro.
O M
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(7) | ‘Svâdhyâya’, "Studio" (âdhyaya) "di sé" (sva), che in questo contesto può essere tradotto "studio per sé", ossia "ripetizione a se stessi" di sacri testi o formule. (Cfr Avviamento al Raja Yoga). (ndt) |
(8) | Vedi Aforima 29 (ndt) |
(9) | Una versione più chiara di questo passo potrebbe essere: "Una tale contemplazione, allorquando si esercita unicamente sul contenuto dell’oggetto come se esso fosse completamente spogliato della propria forma, è detta meditazione." (ndt) |
(10) | William Quan Judge (ndt) |
(11) | Dharma, nel testo. Vedere nota Aforisma 13, Libro III. (ndt) |
(12) | Pùrusha. (ndt) |